Di corporatura bassa ma robusta, i Dayak sono divisi in almeno 200 tribù, ognuna con un proprio nome e un proprio dialetto. Il contatto con i missionari cristiani e commercianti europei ne ha influenzato in parte i costumi di vita; ciò nonostante tra i Dayak si ritrovano ancora pratiche rituali fondate su credenze animiste e quella profonda onestà che li distingue da tutti gli altri gruppi etnici presenti nel Borneo. Perfettamente integrati nell'ambiente selvaggio in cui si stabilirono oltre 4500 anni fa, i Dayak sono abili cacciatori (cacciano soprattutto il cinghiale), e pescatori, ma praticano anche la coltivazione della terra: la foresta viene abbattuta e quindi bruciata (è la tecnica del ladang ); segue la semina del mais e, dopo il primo raccolto, quella del riso. I Dayak costruiscono le proprie abitazioni sulle palafitte nelle vicinanze dei fiumi: sono case molto grandi, in grado di ospitare più di 100 famiglie ovvero, in media, più di 500 persone !
I matrimoni avvengono prevalentemente fra i membri della stessa tribù e la donna mantiene gli stessi diritti del marito.
La produzione artistica e artigianale è di grande interesse. Se i loro tatuaggi riescono a dare l'impressione di un notevole senso estetico (prevalgono i motivi floreali e i disegni di animali), le sculture in legno e gli oggetti in ferro, spesso di uso quotidiano, evidenziano l'impiego di tecniche di lavorazione manuale di livello superiore a quelle che si riscontrano presso tanti altri popoli aborigeni dell'Indonesia.
Un originale spirito creativo si ritrova infine nella danza e nella musica: nei villaggi Dayak si ascoltano spesso bellissimi suoni gravi emessi da grandi flauti (sampe) o da gong. Il Kledi, un organo a fiato fabbricato con sei o otto canne di bambù, risalente all'età del bronzo e rappresentato anche in alcuni bassorilievi del Borobudur, è oggi suonato esclusivamente dalle tribù che vivono nei territori più selvaggi del Kalimantan
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